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lunedì 27 luglio 2009

Tai Ji

Cosa è Tai Ji? Quante risposte a una domanda a cui forse, come diceva un maestro, non è possibile rispondere. C’è un posto qui, sotto un vecchio larice, con una piccola radura piana coperta di erba bassa e senza pietre. L’aria sembra più fine quassù e l’essere circondati dal bosco da un senso di forza, di carica fisica e mentale al tempo stesso. Respiri profondamente, senti spirare dentro di te l’ossigeno, il sangue fluisce più rapidamente, la mente pur più vigile, si lascia andare ad uno stato di attenzione non analitica, non si appunta su alcun fatto specifico, rimane in uno stand-by attivo. Il respiro prende un suo ritmo calmo, prolungato. Poi, con lentezza inizia il movimento. Fin dall’apertura i piedi si muovono in modo ingannevolmente meccanico, la pianta stessa aderisce al suolo in maniera consapevole, considerando e ricercando un equilibrio globale. Il baricentro corporeo e mentale si abbassa istintivamente, per aderire alla terra, per facilitare il movimento, per rendere naturale ogni movimento. Le mani e le braccia si muovono con fluidità, alla ricerca di equilibrare una forza opposta e mutevole che fluttua nello spazio, scandendo posizioni, tecniche, movimenti. Lo sguardo segue un punto preciso in continuo divenire, che si sposta davanti, di fianco, dietro, a richiamare una reazione precisa in seguito ad una azione specifica. Le tecniche della forma si susseguono precise e cadenzate. Il pensiero non ha necessità di ricordarle, di prepararsi ad eseguirle in sequenza. Esse si susseguono naturalmente, perché il corpo ne conosce per imprinting il succedersi obbligato. La bella gru bianca allarga le ali e l’apparente instabilità del peso del corpo completamente sulla gamba sinistra mantiene il corpo stabile dopo la doppia parata; mani di nuvola per muoversi spostanto i colpi, mentre l’ossigeno penetra fino ai vasi più lontani; ago in fondo al mare e la posizione chinata e quasi rannicchiata del corpo aiuta la mano nel gesto di colpire; afferra la coda del passero ed i movimenti di afferrare, parare, spingere si dipanano lievi ed efficaci; accarezza la criniera del cavallo selvaggio ed ancora il corpo si sposta con naturalezza trattenendo per colpire. Un movimento scandito con lentezza che porta al termine la sequenza, che chiude la forma, che riporta il cerchio al suo equilibrio, alla posizione iniziale, alla tranquilla compiutezza. La mente rimane serena dopo. Ti puoi sedere su una roccia e guardare a valle. Sotto il grande larice, le cose assumono allora valenze differenti, come se i problemi fossero piccoli soprammobili da spolverare ogni tanto e se non ti piacciono più e ti infastidisce la loro vista, da riporre in un cassetto, definitivamente. La pianura con le sue paure, avvolta da una nebbiolina azzurra è lontana. Le ronde che la percorrono in camicie colorate, ancora di più.

sabato 18 luglio 2009

In montagna un giorno d’estate

Certo qui l’atmosfera è decisamente diversa, anche se per tutta la notte il vento teso dell’Assietta ha spazzato con forza la valle portando con sé nubi e umidità. Non è certo il feroce vento gelido dell’inverno che faceva dire al Cardinal Pacca “Se vuoi conoscer l’inferno vieni alle Fenestrelle d’inverno”, pure le folate che sibilano sotto il tetto fanno temere ogni genere di disastri, poi, la mattina, trovi al più qualche vaso rovesciato ed il cielo terso con qualche bianca nuvola alta che ti riconcilia con il mondo. Così i rudi camminatori prendono la strada delle vette, mentre i pigri, che vogliono approcciare la natura con più calma, si stendono sui prati con gli amici ritrovati, con cui è bello dialogare su come è passato l’inverno. Deve essere un po’ la stessa serena malinconia di Li Po in questa lirica forse meditata tra i monti dopo un caldissimo luglio a Chang An.

Agito lievemente un bianco ventaglio di piuma,
Seduto colla camicia aperta in un verde bosco.
Mi tolgo il berretto e l’appendo ad una pietra che sporge;
Il vento dei pini piove aghi sulla mia testa nuda.

lunedì 13 luglio 2009

Wáng - Yù - Guó


Oggi ho avuto la prova provata che non è poi vero, come credevo, che i blog sono una sorta di esibizionismo d'accatto che nessuno legge. Infatti, di qualunque argomento si tratti, anche se riguarda cose apparentemente prive di interesse come i miei pretenziosi intenti elucubratori, forse campati per aria, sui caratteri cinesi, ebbene, qualcuno commenta con interesse, aggiunge informazioni, arricchisce il contenuto. Sono sempre più stupito dalla potenza della rete. E non ridete di me. Comunque i commenti al mio precedente post teo-filosofico, mi spingono a riprendere la materia per sottolineare l' ampiezza delle possibilità di discussione aggiungendo quindi l'esame di altri tre caratteri molto comuni nella lingua cinese. Dice Popinga che il primo ideogramma Wáng che significa Re, Imperatore (tra l'altro è anche uno dei cinque cognomi più diffusi in Cina) secondo René Guènon nella Grande Triade, potrebbe essere il quinto ideogramma della serie identificando nelle tre linee orizzontali Cielo, Uomo (la più piccola centrale appunto) e Terra, unite da una linea verticale. Ora se questa è una della interpretazioni possibili, però non la fa diventare la quinta stazione della serie, in quanto là, l'uomo è definito dal pittogramma dell'omino che cammina e non dal tratto orizzontale. Ci sono altre due spiegazioni accreditate di Wáng. La prima si fonda sul fatto che la cifra uno (in alto) oltre all'unità, si usa anche per segnalare la linea dell'orizzonte o il cielo, mentre la cifra due (le due linee in basso) in contrapposizione, vengono usate per indicare la terra, quindi ancora "il trait d'union tra la terra e il cielo". L' ultima spiegazione, che forse è la più banale, ma come spesso capita la più probabile, vista l'origine dei segni semplici, è che sia un chiaro pittogramma che raffigura l'imperatore nella sua figura immaginifica, spalle larghe, cintura e grande veste di gala che si allarga fino ai piedi. Questa si trova già nei primi segni di oltre 4000 anni fa, poi forse i saggi hanno voluto aggiungere fuffa per giustificare l'origine divina del potere (cosa comune anche ai giorni nostri e non solo in Cina). Interessante il passaggio al secondo carattere Yù (giada), la pietra imperiale, la più pura e preziosa, degna di essere portata solo dal re. Ed ecco che il carattere si forma aggiungendo a quella del re una piccola pietrolina cucita tra le sue ricchissime vesti. Anche qui la più prosaica interpretazione dei commentatori più smagati è che si tratta di un pittogramma che rappresenta tre anelli orizzontali di giada (visti di profilo) uniti da un filo per tenerli insieme in un ciondolo, come era comune per le concubine dell'imperatore e che il puntino, orrida banalità, sia stato aggiunto solo perchè i copisti lo potessero distinguere da carattere di Re. Banale? Sì, ma forse realistico. Infine ecco il terzo carattere della serie, Guó (nazione, regno) che si ottiene circoscrivendo Yù con i confini. Anche qui più spiegazioni. Potrebbe essere "tutto un territorio compreso in confini, dove l'uno -uomo è unito a due-altri uomini per formare un popolo, governato dal puntino che li tiene insieme e li dirige (a destra il puntino, curioso eh?)". Ma anche un confine che racchiude ciò che più è prezioso per chi vi abita, la propria patria, come la giada è la più preziosa tra le pietre. Come vedete queste spiegazioni non sono poi così alternative tra di loro, ma sono state via via aggiunte in modo sincretico dai saggi, per contribuire ad illustrare la ricchezza interiore di un popolo, leggibile nella sua scrittura. Un pensiero che difficilmente nega qualcosa (come spesso in oriente) ma tende ad aggiungere più che ad escludere, ad assimilare (magari copiando) per cercare di trarre il meglio. Ecco il perchè della correttezza della osservazione che mi fa Milleorienti al post precedente che sottolinea come il Taoismo dia una interpretazione dell'universo decisamente opposta, escludendo la visione antropocentrica. Anch'io sottoscrivo quanto dice e cioè che "“la Via veramente Via non è una Via costante”. In sostanza bisogna essere disponibili a cambiare idea o almeno a modificarla.

sabato 11 luglio 2009

Yī - rén - dà - tiān


Oggi, che i concetti della vita e della morte bruciano decisamente di meno e lasciano la mente libera di vagare su temi più sereni sebbene immanenti, vorrei illustrare un tema filosofico abbastanza interessante che, stando alle interpretazioni del già citato Don Ming, vecchio prete, maestro di comprensione della concettualità linguistica cinese dell'amico Gianni, descrive bene il rapporto tra l'uomo e la divintà, secondo i saggi del regno di Mezzo. Dunque esaminiamo i quattro ideogrammi proposti, che tramite i più semplici costruiscono per aggiunta i più complessi. Il primo Yī , significa uno, l'unità, ed è di facile comprensione; il secondo Rén uomo, persona, individuo ed è la comprensibile stilizzazione di un omino che cammina verso destra; il terzo Dà , in pratica lo stesso omino visto di fronte che allarga le braccia allungandole per quanto gli è possibile per illustrare il concetto di grande, grosso; infine il quarto Tiān, significa cielo, celeste, divino, insomma il concetto di divinità (come ho già detto nella lingua cinese i confini tra sostantivi, aggettivo, verbo, preposizione sono molto labili, quello che conta è il concetto rappresentato dell'ideogramma). Bene, sebbene noi occidentali abbiamo la falsa credenza di un popolo cinese legato al collettivo, al popolo nel suo insieme, all'annullarsi delle pulsioni del singolo, ingenerata forse da una cattiva digestione di concetti maoisti, mai penetrati realmente nella mentalità cinese, in realtà gli abitanti del celeste impero sono estermamente permeati dal concetto di unicità e dell'importanza del singolo. Ecco quindi che la semplicità del segno, Yī, è la forza dell'unità, della singolarità dell' uno che è la base di partenza per arrivare al tutto. Se associamo questa unicità, sovrascrivendola, incrociandola al segno di uomo si ottiene il segno di grandezza, essendo l'uomo l'unico essere della creazione veramente grande. E sopra di questa grandezza cosa può stare? aggiungendo un'altra unicità, solo il cielo, la divinità, concetti equivalenti. Questo senso di unicità e supremazia dell'uomo sul resto del creato, che lo pone in posizione nettamente primaria rispetto a tutto il resto, potrebbe servire a descrivere, certi atteggiamenti o modi di avvicinarsi alle religioni in senso lato o al rapporto con la natura, verso i quali, secondo il comune sentire che abbiamo verso questo popolo, sembra di avvertire sempre un certo senso di predominanza. Ma sono elucubrazioni del sabato, di cui mi piacerebbe avere confutazioni, anche perchè, chi lo dice che il buon Don Ming non sparasse teorie pour épater le bourgeois? Per ora vi saluto, in quanto tutto questo filosofeggiare mi ha fa bruciare la testa in modo irresistibile; non mi posso più trattenere, vado.

domenica 5 luglio 2009

Essere o non essere.



Oggi, sempre nel disperato tentativo di indagare una lingua per tentare di capire l’anima di un popolo, voglio, con l’aiuto dell’amico Gianni e del suo vecchio maestro Don Ming, mettere a paragone due ideogrammi molto comuni nella lingua parlata e scritta. Il primo, la cui pronuncia è Mù, significa legno, albero e viene interpretato come la stilizzazione della linea orizzontale che rappresenta la superficie terreste, al disopra della quale si erge il fusto e al disotto della quale campeggia un robusto apparato radicale, in quanto senza radici robuste non c’è possibilità di esistenza piena. Il legno è anche uno dei cinque elementi fondamentali che costituiscono l’universo della scientificità prearistotelica cinese. Mù è la vita che cresce, che riempie la terra del sé, che rende cosciente la materia. Nel secondo ideogramma, Bù, invece, la presenza delle radici sotto la linea della terra, non dà luogo a nulla, non crea vita, rimane sterile e senza frutti, rimane di per sé il simbolo della non esistenza, del non essere e come tale viene usato come negazione del verbo essere. La mancanza di vita, di crescita, di presenza, nega l’esistenza, infatti per il verbo avere si usa un altro tipo di negazione. La morte, come non vita, il nulla assoluto, la negazione. Forse questa gente ha pensato molto in passato, non credo che si limiterà in futuro a produrre solo batterie difettose che scoppiano appena messe nei telefonini; non sottovalutiamo nessuno.