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venerdì 28 agosto 2009

An mó

L’arte del massaggio è antica come la Cina. Il primo carattere del bisillabo, che significa “massaggiare”, è “àn”, formato dal segno an per la pronuncia, accoppiato al segno di mano come suggerisce l’atto di cui si tratta. Questa attività non è una semplice tecnica di benessere fisico, ma fa parte della medicina tradizionale, in quanto non si tratta di banale manipolazione, ma di una complessa serie di digitopressioni nei punti sensibili dell’agopuntura, seguendo con precisione la teoria dei meridiani. Io sono un amatore dei massaggi e, come sapete, esperimento con curiosità le cose che incontro e qualche anno fa a Pekino ebbi una interessante esperienza al riguardo. La fiera era alquanto moscia e si chiacchierava con i colleghi degli stand vicini in attesa dei primi svogliati clienti. L’amico della ditta che ci stava a fronte arrivò con qualche minuto di ritardo con il ghigno sofferente di chi ha dormito poco bene. Dopo il caffè di rito volle metterci a parte di quanto gli era occorso la sera prima, quando lo avevamo visto filare alla chetichella senza venire a cena col gruppo. Amante anch’egli dei massaggi, aveva voluto profittare dei servizi del nostro hotel, che al secondo piano avevano un interessante insegna che recitava: Thai and Chinese Massage, con alcune gentilissime e sorridenti signorine alla reception. Alla richiesta aveva scelto il massaggio thai, speranzoso di una esperienza variata ed indimenticabilmente esotica. Accomodatosi sul lettino era stato preso in carico da una signorina alquanto muscolosa che, in linea con lo stile prescelto, aveva cominciato ad operare sulle sue stanche articolazioni, prese e torsioni piuttosto rudi. Incurante dei suoi, dapprima cauti, poi sempre più gridati, segnali di stop, proseguiva nelle sue prese a tenaglia interrompendosi solo al suono di preoccupanti scrocchiamenti e al raggiungimento di angolazioni decisamente innaturali. Non ci fu verso di farla smettere, furono quaranta minuti di dolore e lacrime e quando finalmente scoccò l’ora, non gli parve vero di poter porre termine alla tortura pagando il giusto. La notte portò linimento alle ferite e alla delusione, ma a quanto riportava, quella mattina gli sembrava di stare decisamente meglio. Fatto acuto dall’altrui esperienza, nel tardo pomeriggio, arrivai davanti al centro benessere dell’Hotel, dubbioso ma deciso a non rifiutare l’esperienza ed alla gentile richiesta di scelta, risposi senza esitazioni, Chinese massage, alla sorridente ed esilissima fanciulla che mi accompagnò nella stanzetta, dopo che avevo calzato i mutandoni di ordinanza. Steso sul lettino, attendevo la mia delicata ancella, quando si aprì la porta e con orrore, vidi entrare deciso un mongolo basso e tarchiato, in tutto simile al mitico Objob di Mission Goldfinger, uno dei film cult della mia gioventù. Aveva manone grandi come putrelle e i ditoni grassi e tozzi che quasi non si distendevano, leggermente torti, sembravano pinze d’acciaio al magnesio. Mi guardai attorno per vedere se c’erano vie di fuga. Nulla, solo e prigioniero del mostro che con un sorriso melenso sbatteva le manone, sfregandosele per scaldarle. Il testone pelato era imperlato di sottili goccioline mentre le fessure degli occhi si stringevano sempre di più. Gli artigli calarono di botto sulla mia schiena afferrandone i teneri fasci muscolari non usi ad un simile trattamento . Capii che era inutile tentare di opporsi al mostro, abbandonarsi era l’unica soluzione per abbreviare la tortura, quei bitorzoli puntuti premevano i miei punti sensibili senza pietà come cacciaviti dentro il legno massello, come punte di trapano nel muro della mia insensibilità occidentale, tentando nuove vie, cercando di creare non richiesti nuovi orifizi. Come dio volle tutto finì come era cominciato e il mongolo con un piccolo inchino scomparve dondolandosi dietro alla porta da cui era comparso, lasciando il posto all’ancella che mi aiutò a ritrovare la via del ritorno. Il giorno dopo camminavo leggero e disteso e firmammo anche un contratto. L’effetto placebo aveva colpito ancora.

domenica 2 agosto 2009

Ming.

Cade una pioggerella leggera che ha rinfrescato l’aria. Il monaco ha terminato una breve meditazione, poi lentamente si è seduto al tavolo ripiegando le gambe con un colpo secco alla lunga tunica grigia. Ha preso con la mano sinistra il bastoncino di china nera e con un piccolo strumento ne gratta con cura la polvere che cade nella cavità della bella pietra nera da inchiostro sulla cui sommità è scolpito un drago dalla coda ritorta. Esegue questa operazione con cura e con lentezza. Un pensiero all’allievo che si domandava perché lui, maestro calligrafo non lasci questo noioso compito a qualche studente per dedicarsi solo al tratto dei caratteri. Una lieve piega della bocca, un accenno di sorriso. Come può comprendere il Tao, se ancora pone queste domande, se non capisce che anche la ripetitività di una operazione semplice apparentemente ripetitiva è parte del tutto, del compiersi totalizzante del gesto, della riuscita finale, dell’essenza di significato che la pennellata dà a dei semplici segni tracciati sulla carta. Quando l’inchiostro è pronto, si ferma un attimo a contemplare il grande foglio di carta disteso davanti a lui, un vuoto di concetti da riempire di forma. Sposta con cura l’ampia manica della veste. Ha scelto un grande pennello, di pelo di martora morbido e flessibile; lo inumidisce quando basta, permettendo all’inchiostro di permearne gli interstizi, lo solleva appena perché non coli e dopo un attimo di attesa, quasi ad attendere che il concetto fluisca rapido dalla sua mente, attraverso il braccio fino al manico, la mano guida l’attrezzo con colpi netti, quasi fossero leggeri fendenti di pugnale, neri tagli decisi sul biancore abbacinante della preziosa carta fatta a mano. Due brevi tratti verticali e uno orizzontale a completare un piccolo rettangolo, con una chiosa centrale; un attimo di sosta poi un deciso taglio verticale ed un secondo al suo fianco finito di scatto con un colpo deciso del polso a formare un piccolo e grazioso uncino; infine due brevi tratti orizzontali a completare il carattere Ming, formato da due ideogrammi semplici accostati, a sinistra il sole, a destra la luna, stilizzazione della falce appesa nel cielo. Sole più luna, accoppiati, non c’è luce più forte, di qui il significato di Luce, Chiarezza, Illuminazione. Che curioso - pensò il monaco – questo concetto di luce accecante che squarcia le tenebre della notte fisica e psichica, dell’ignoranza, del dubbio, che illumina la mente e la apre definitivamente alla comprensione. Che curiosa la lingua cinese e questo ideogramma, che è anche il nome della penultima dinastia imperiale così amante dell’arte e della bellezza, oggi usato anche in tante parole moderne, che definiscono concetti nuovi e sconosciuti, ma all’interno dei quali vivono gli stessi antichi significati. Unito alla carattere di libro (Ming shū) si ottiene : “Il libro della luce” e lo si trova continuamente allegato a tutti quegli strumenti modernissimi che tanto affascinano le persone più curiose. Niente altro che il libretto di istruzione, quello che molti occidentali aprono solo dopo aver rotto lo strumento di cui cercano di capire il funzionamento maneggiandolo maldestramente senza prima volerlo conoscere, cercare di assorbirne l’essenza. Sorride ancora il monaco pensando a questo, mentre il grande foglio che porta impressa la sua opera finisce di asciugare.