Da oggi potrete ottenere sconti su Amazon Italia cliccando qui

martedì 19 gennaio 2010

Xiōng, Mèi, Jiě, Tài.


Ferox, che mi segue con fedeltà dal gelo sarmatico, mi fa notare quanto sia importante per i cinesi il concetto di famiglia e come di conseguenza, questo si riverberi sulla lingua, come di consueto. Di certo, la famiglia è uno dei grandi obblighi e dei punti fissi per quel popolo. E' noto il rispetto e la devozione verso i genitori ed in generale verso gli anziani della famiglia ed il ricordo religioso rivolto agli antenati. Chissà se in questa era di contaminazione, questo aspetto verrà conservato. La Cina, complice la politica del figlio unico, sta invecchiando al pari dell'Europa e questa grande massa di anziani nullafacenti (di cui io sono il classico esempio) comincia a creare anche là notevoli problemi di tipo economico-sociale, unita ad una generazione di bamboccioni viziatissimi (che laggiù vengono chiamati piccoli imperatori) che sta crescendo tra mille agi prima sconosciuti. Tra l'altro ricordo che tutte le minoranze (tibetane, uigure, ecc.) sono escluse da questi obblighi ed anche per questo odiate dalla maggioranza Han. Grande interesse quindi nell'esame degli ideogrammi che definiscono i rapporti di parentela. Partiamo dunque dal primo Xiōng - 兄, fratello maggiore. Qui si evidenziano, nella parte inferiore, le due malferme gambette del fanciullo che comincia a fatica a camminare, ma il carattere di Bocca sovrapposto ad esse chiarisce subito che questo è il fratello che già sa parlare, in un tempo in cui i figli si facevano uno dietro l'altro, si direbbe senza soluzione di continuità. Nel secondo: Mèi - 妹 si evidenzia a sinistra il ben noto (per chi mi segue)segno di Donna accompagnato da quello della pianta con l'aggiunta di un trattino orizzontale che sottolinea il fatto che il fusto sta per uscire dalla linea del terreno, che sta nascendo (ha infatti, da solo, il significato di Nascere), pertanto Sorella minore, quella nata da poco, in contrapposizione al terzo Jiě - 姐, sorella maggiore, dove la parte destra del carattere, che ha anche funzione fonetica, significa da solo Più avanti, quindi la ragazza più avanti con gli anni. E veniamo all'ultimo, il più interessante, secondo me. Tài -太, è un ideogramma tra i più usati e deriva, come certamente ricorderete dal comunissimo Dà - 大, l'omino con le braccia aperte che sta per Grande, con l'aggiunta di un puntino, una gocciolina tra le gambine. Significa Troppo e quel puntino è proprio quel qualcosa in più che trasforma il grande in troppo, la classica goccia che fa traboccare il vaso. Grande, colmo, pieno che di più non può contenere e basta quel puntino per renderlo esagerato, non sopportabile. Che c'entra Troppo con la famiglia? Se raddoppiamo il carattere, quindi Tài Tài - 太 太, due volte troppo e vi lascio immaginare l'iperbole, abbiamo un'altra parola comune della lingua cinese. La indovinate? Significa Moglie. Non aggiungo altro, ma voglio lasciare spazio ai commenti che di certo vorranno evidenziare le identità filosofiche che stanno alla base di tutte le comunità umane e di certo anche il fatto, innegabile, che se la lingua parlata è sicuramente di predominio femminile, quella scritta, la redazione delle regole fondamentali quantomeno, è stata di totale appannaggio maschile. Credo che anche Socrate, se pur non ha lasciato nulla di scritto, avrebbe concordato.

mercoledì 6 gennaio 2010

Xiào.


Accidenti, qui è tutto un pianto greco, dovunque mi giro sento solo gente che si lamenta. Per carità, comodo dire così, se ti gira quanto meno normale, però ho la sensazione che un certo ottimismo, per lo meno come atteggiamento di base, migliori la qualità della vita. Anzi pare che ridere per qualche minuto al giorno abbia un riflesso significativamente positivo sulla salute. Sarà; ad esempio i cinesi, tanto per dirne una, ci hanno sempre creduto. Colgo un suggerimento di Ferox che mi segnala un carattere molto interessante e che calza a pennello con quanto detto. Prendiamo dunque l’ideogramma Xiao che significa proprio “ridere”. E’ diviso in due parti come molti altri. La parte inferiore è decisamente ideogrammatica, rappresenta un uomo che china la testa nell’atto di ridere, sempre molto controllato, mi raccomando, non sta bene il lasciarsi andare ad atteggiamenti scomposti, che deformano i tratti del viso in modo volgare, direbbe il vecchio abate assassino del Nome della Rosa. Niente esagerazione, ma equilibrio, compostezza, armonia. Quindi chiariamo subito che ridere per i cinesi non significa sghignazzare, ma appena di più che sorridere. Un filino, quanto basta per capire la differenza, per dimostrare che chi lo fa si diverte per sé stesso, non solo per mettere a suo agio chi sta con lui. E volendo sottolineare proprio questa levità, questa compostezza, ecco che arriva, mirabile, il tocco di genio, la parte superiore del carattere, che è anche la chiave di ricerca del carattere stesso. Presa da sola è Zhu, il prezioso, delicato, flessibile bambù, sempre presente, col suo verde pallido ad ornare ogni giardino che si rispetti, che si piega alla forza bruta, ma resiste incrollabile, non si lascia strappare, spezzare; più tu eserciti la forza, più lui ti vince, ti taglia le dita. Così deve essere la risata, come il fruscio della canne tenere di un ciuffo di bambù, deve accarezzare con un suono allegro l’ambiente, deve rendere ancora più bello il volto di una donna, più simpatico quello di un uomo. Saper ridere in Cina è fondamentale, per una trattativa commerciale, per intrattenere i propri ospiti, per trattare con le persone. Mai mostrarsi irritato durante una relazione d’affari, mai perdere la pazienza, ma ridere e bere il thé. Bisognerà che scriva un trattatello per il mercante in Cina prima o poi. “Se non sai ridere, non aprire un negozio” recita il più classico dei proverbi cinesi e secondo me i cinesi, di motivi per ridere ne hanno parecchi, anche se tutto il resto del mondo li snobba come copiatori infaticabili e basta. Per gente che ha avuto genitori che andavano a strappare l’erba nei fossi per mettere qualcosa nella pancia, qualche passo l’hanno fatto e non li ha certo aiutati nessuno, casomai hanno cercato di buttarceli in quel fosso; tutto merito loro, del loro lavoro e della loro determinazione. Un senso di sacrificio, che magari da queste parti latita un po’. Si sghignazza di più, certo, ma mi sembra che si rida di meno.

sabato 2 gennaio 2010

Hóng lóu mèng.


Ieri ho finito Hóng lóu mèng, Il sogno della camera rossa, uno dei più famosi classici cinesi della fine del settecento. Il romanzo di Zhao Xue Chin, ambientato nel periodo d’oro della dinastia Chi, rappresenta una bella sfida per il lettore occidentale, anzi diciamo pure che ci vuole un bel fegato ad affrontare fino alla fine le oltre mille pagine di questo affresco di vita di corte cinese, senza crollare, massacrati da un modo di raccontare tuttaffatto diverso da quello a cui siamo abituati. Un continuo affastellarsi di avvenimenti, un raccontare dettagli che ci possono apparire secondari o non determinanti nello svolgersi della storia. Eppure se si riesce a resistere, seguendo la vita del giovane Pao-yu, il rampollo di una importante famiglia di nobili, destinato al classico cursus honorum per diventare funzionario alla corte dell’imperatore, che si dipana lentamente negli splendidi giardini di certo molto simili a quelli che si possono vedere ancora oggi in Cina, apparirà uno stupendo affresco di vita, che permette di afferrare completamente moltissimi aspetti della mentalità, del costume, del modo di esprimersi, di tutte le infinite sfumature di comportamento di un mondo di cui spesso si conosce assai poco e ancor peggio si interpreta sulla base di notizie approssimative. La vicenda si può interpretare come quella di un giovane Holden d’Oriente, ribelle al destino che lo attende, al modo di comportamento che da lui ci si aspetta, secondo una serie di topoi, tutto sommato comuni a tutte le culture. L’adolescente cresce in mezzo ad un gran numero di sorelle e cugine, vivendo praticamente un mondo femminile, appunto “la camera rossa” e rifiutando di applicarsi allo studio seriamente come da lui si vuole, innamorandosi, ricambiato, della ragazza non destinata a lui, la bellissima cugina Tai-yu e obbligato a sposare quella che non lo interessa. Dopo l’amore impossibile, la morte di consunzione dell’innamorata, il rifiuto dell’autorità e degli obblighi a cui era destinato, Pao-yu si farà monaco e la casata, scossa da scandali e minata dalla corruzione cadrà definitivamente in rovina. Sembra una classica trama di un nostro romanzone ottocentesco, poniamo, tanto per dire, I Vicerè, ma è il ritmo particolare, la descrizione minuziosa degli ambienti, i dialoghi che illuminano meravigliosamente le sfumature del linguaggio, la pruderie che ancora oggi impediscono anche la pronuncia di semplici allusioni, come il gioco delle nuvole e della pioggia, pena una imperdonabile volgarità o il barocchismo esasperato delle formule di cortesia e degli atteggiamenti, che riescono ad affascinare il lettore nostrano. Atteggiamenti descritti, modi di fare, mentalità di quasi tre secoli fa eppure molto presenti oggi in un paese che si sta candidando alla leadership mondiale e verso la quale molti hanno ancora un atteggiamento di tragica supponenza. Io ho avuto tra le mani una deliziosa edizione UTET del ’64, che mi ha regalato un caro amico e se decidete di dargli un’occhiata, cercate di resistere fino alla fine, secondo me, si capisce di più della Cina da questo libro che non da molta documentaristica spicciola che circola. Mal che vada farete sempre una gran figura da intellettuali, citando l’opera.