Da oggi potrete ottenere sconti su Amazon Italia cliccando qui

sabato 28 agosto 2010

Recensione: Angela Staude - Giorni cinesi.


Oggi vorrei parlarvi di un libro che da tempo mi interessava e che finalmente ho potuto leggermi con calma, complici i miei ozi fenestrellesi. Si tratta di Giorni cinesi, di Angela Staude, vedova di Tiziano Terzani, edito da TEA. E’ il diario del periodo che va dall’80 all’83, in cui Terzani portò la famiglia a vivere in Cina a Pechino, per poter fare, come suo costume, un giornalismo davvero “dentro” alla realtà che voleva descrivere. Il libro mi attizzava molto in quanto descrive un momento della Cina che io non ho potuto conoscere, avendo avuto l’opportunità di lavorarci solo oltre un decennio dopo.

Allora il paese stava uscendo dal fallimento tragico dell’esperienza maoista e dal suo estremo colpo di coda, la rivoluzione culturale e proprio quegli anni segnarono la presa di potere di Deng Xiao Ping che mise le basi per la Cina che oggi è a tutti gli effetti il secondo paese del mondo e la reale locomotiva economica di questi anni. Devo dire che leggendo questo diario interessantissimo, che dipinge un paese devastato, visto nei suoi aspetti più intimi e segreti, girato in bicicletta e con mezzi locali, sfuggendo appena possibile al controllo dell’apparato, con un punto di vista altrettanto interessante ed inconsueto dato dalle testimonianze dirette dei due figli iscritti a 7 e 11 anni nella scuola cinese, si ha una illustrazione di un paese oggi assolutamente irriconoscibile. La testimonianza di disperata depressione psicologica dei tanti cinesi con cui i Terzani furono in contatto, non combacia in alcun modo ad esempio con le mie esperienze, più recenti di un solo quindicennio, a dimostrazione di che incredibile ed assolutamente imprevista evoluzione possa avere un paese in pochi anni.

E’ vero che i loro contatti erano principalmente provenienti dal mondo degli intellettuali e degli artisti, che maggiormente avevano sofferto durante il periodo maoista, mentre la mia esperienza è stata più rivolta al mondo delle attività industriali, dunque impiegati, operai e imprenditori, quella classe media che allora era appena all’inizio del suo formarsi e che ha maggiormente beneficiato dell’esplosione economica dell’ultimo ventennio, ma io non ho potuto notare quasi mai quelle sensazioni di disperata negatività così ben descritte nel libro, anche perché evidentemente la maggior parte dei miei incontri avveniva con persone che di anno in anno aumentavano in maniera esponenziale il loro benessere materiale. Alla fine del libro però, appare chiaro che il cambiamento sta per scoppiare, con tutti i vantaggi e ovviamente tutti i contrasti e le problematiche che sarà destinato a produrre. Soprattutto per chi conosce già la Cina, il volume sarà estremamente interessante.

giovedì 19 agosto 2010


Se fossi un ragazzo giovane e dovessi entrare oggi nel mondo del lavoro, sarei molto preoccupato e incazzato anche; da un lato ti dicono che sei un bamboccione che non hai voglia di fare nulla, dall’altro ti offrono lavori in nero a 6/800 euro e te ne chiedono altrettanti per affittare una stanza; poi sul giornale leggi che dei poveri datori di lavoro non riescono a trovare decine di cuochi e devono chiudere i loro locali, mentre il giorno dopo un cuoco risponde che da 18 anni riesce a lavorare solo in nero per poco più di un migliaio di euro con 13 ore di lavoro e appena chiede di essere messo in regola, rauss!

I cinesi hanno sempre avuto ben chiaro che i rapporti di lavoro sono rapporti di forza, in cui chi comanda ha su di te ogni diritto e tu nessuno. Come sempre lo si vede bene nella lingua. Oggi esaminiamo l’interessante carattere Lì-隶. E’ costituito dall’ideogramma di mano (in alto) che afferra la coda di un animale visto dall’alto (sotto) e di cui si notano le quattro zampe che tentano inutilmente di resistere allargandosi al massimo nelle quattro direzioni. Il significato originario era ovviamente quello di afferrare, ma subito ne ha assunto un altro: “subordinato, lavoratore dipendente”. Unito a Nú (servo) – , si ottiene schiavo.

Sempre più chiaro ed evidente. Certo un tempo i sacerdoti portavano le vittime al sacrificio tirandole per la coda. Oggi ad essere tirato per la coda e condotto al macello è chi è più debole ed in stato di necessità. Se non sei così debole, i nostri bravi cinesi dicono che: “ Hai una coda troppo grossa per scodinzolare”, se invece sei in stato di necessità, sei uno che “muove la testa e dimena la coda”. E’ il mercato amico mio, devi rassegnarti, è la legge della domanda e dell’offerta. Il problema è che mi sembra siamo tornati ad un periodo di capitalismo selvaggio in cui tutto è permesso. Il guaio è che queste situazioni hanno la tendenza a finire tutte malamente e se poi la gente si incazza davvero di aprire il giornale e leggere solo delle cucine a Montecarlo o delle puttane a palazzo, sono grane grosse, perché quando monta la rabbia, non si intendono più ragioni, si strappa la coda e si spacca tutto.

martedì 17 agosto 2010

Il Milione 24: Guerrieri e ravioli.

La carovana dei Polo è in marcia da quasi tre anni, anche se noi che la seguiamo a sprazzi, solo da qualche mese, ma l’ansia di arrivare alla metà, doveva essere grande nel giovane Marco, man mano che Cambaluc, l’odierna Pechino, si avvicinava. Ormai percorrevano le strade sicure del Catai, ben protette dagli uomini del Gran Khan e il nostro narratore comincia a raccontare abitudini e fatti riguardanti quello che sarà il suo protettore per i futuri due decenni.

Cap. 68

…e dovete sapere che tutti li Grandi Kani sono sotterrati a una montagna grande e tutte le gente incontrate per quello viaggio dove si porta il morto, sono messi a le spade e uccisi. E dicongli:” Andate a servire lo vostro signore ne l’altro mondo”. E così uccidono gli cavagli, e pure li migliori, perché ne abbia ne l’altro mondo.

Questa supposta tradizione di seppellire uomini e animali oltre che arredi, per l’utilità del re nell’aldilà, comune a tante culture a partire dagli Egizi, potrebbe essere stata più teorica che effettiva e rimanda alle tombe degli imperatori che fin dal 200 A.C. avevano a corredo oltre che ricchissimi arredi, i famosi eserciti di terracotta. Di questo avrà di certo sentito parlare il nostro Marco, transitando dal terminale della via della seta, l’odierna Xi An, l’antica capitale dell’impero Tang, allora denominata Chang An.

Qui, da migliaia di anni si elevano i grandi tumuli che nascondono le tombe inviolate degli antichi imperatori e solo per caso è stata riportata alla luce quella che è una delle meraviglie archeologiche della Cina, il più grande esercito di statue a grandezza naturale (anzi un po’ di più) oggi conosciuto. Oltre diecimila pezzi diversi, allineati in file da quattro, in marcia verso l’eternità per accompagnare l’imperatore nell’ultima battaglia. Ricordo ancora la grande emozione che provai, osservando quella schiera silente, cavalli, soldati, ufficiali dagli occhi severi e determinati nel loro ultimo compito. Raffinata cultura di secoli, da cui i barbari mongoli invasori furono immediatamente affascinati e a loro volta conquistati, facendola poi propria e arricchendola con le loro tradizioni. Nell’arte, nella letteratura così come nella cucina. Parleremo un’altra volta degli splendidi banchetti di Kubilai Khan, ma di certo uno dei punti topici di questa, è rappresentata dai ravioli, che si dice proprio Marco abbia poi portato in Italia, di cui si trovano le prime tracce proprio alla fine del 1200.

Molti sono anche oggi i ristoranti in Cina che fanno di questo piatto (chao zi) il loro punto di forza, ma quello che provai io, proprio a Xi An, dopo aver percorso la sua straordinaria cinta di mura, che di certo impressionò la nostra carovana, fu di particolare interesse. Anche se ho scordato il nome del locale, mi è rimasta invece ben scolpita nella memoria la serie di 50 tipi differenti di raviolo, serviti in serie di 5, ognuno con diverse carni, seguiti da quelli di pesce e ancora da quelli alle verdure, per terminare con quelli dolci. Un caleidoscopio di sapori, da far passare in secondo piano lo spettacolo che si svolgeva sullo sfondo. Certo diversi dagli agnolotti di stufato o dai pansotti alla borragine, ma provare ad apprezzare i gusti altrui e anche un buon inizio per riuscire a capire i più diversi ed all’apparenza inconciliabili punti di vista.

martedì 3 agosto 2010

Il Milione 23: Latte di cammella.

Se avrete la ventura di andare a Pekino, non perdetevi il mercato delle cose vecchie, una specie di bazar di rigattieri e cineserie a sud della città nei pressi del terzo anello, aperto il sabato e la domenica mattina. Io ci andavo spesso e vi assicuro che è una vera delizia perdere qualche ora tra le centinaia di bancarelle o tra le merci esposte per terra. Ci troverete un po’ di tutto, dai memorabilia maoisti, compresi fumetti d’epoca, alle pietre dure, ai materiali tibetani e di varie minoranze, bronzetti, ricami e naturalmente ceramiche, inclusi i classici vasi cinesi.

Naturalmente non illudetevi di trovare roba antica, ma curiosità e oggetti simpatici, sicuramente, inclusi fogli di carta su cui maestri calligrafi con grandi pennelli esercitano la loro arte. Una cosa noterete di sicuro, che la maggior parte dei banchetti è gestito da donne, decise e tignose nella difficile arte della contrattazione. Tutto questo deve far parte di un costume antico, tanto che il nostro Marco Polo lo registra puntualmente, quando comincia a descrivere i costumi dell’immenso territorio dell’impero in cui la carovana è appena entrata.

Cap. 68

…e sì vi dico che le loro femmine vendono e comprano e fanno tutto quello che alli loro mariti bisogna, però che gli uomini non sanno fare altro che cacciare e uccellare …

Questo fatto che le donne mongole e cinesi si occupassero di commercio, cosa tipicamente maschile per l’occidente, deve averlo lasciato assai perplesso, ma è solo una delle tante differenze di costumi a cui deve cominciarsi ad abituare e che comincia fedelmente a registrare nel suo racconto. Ecco infatti che subito dopo, la vita seminomade delle grandi tende mongole, ci compare identica a quella che si può vedere ancora oggi.

…li Tartari dimorano lo verno in piani luoghi ove ànno erba e paschi per loro bestie, d’estate in luoghi freddi ov’è acqua. Le case loro son tonde e coperte di feltro e portallesi dietro in ogni luogo ov’egli vanno ch’egli ànno ordinate sì bene le loro pertiche che troppo bene possono portarle leggermente e rifarle. E ànno carrette coperte di feltro nero che, per che vi piova suso, non si bagna nulla che entro vi sia. E fannole menare da camegli e ‘n su pongono loro femmine e fanciugli. Vivono di carne e di latte di giumente e di camegli.

Chissà quanto se ne sarà bevuto di kefir, di kumis nelle varie lavorazioni tradizionali e soprattutto di latte di cammella che sembra proprio la specialità della zona. Io invece questo famoso latte avrei dovuto berlo proprio quando da quelle parti non ci ero andato. Infatti, quella volta era toccato a due miei colleghi volare a Chimkient in Kazakistan, terra dove le facce squadrate degli abitanti raccontano bene il passato dominio mongolo. Io invece, a casa a guardia del fortino. Pare che i due poveretti abbiano dovuto trangugiare una tale quantità del bianco liquido dall’odore (non lo definirei profumo o aroma) caratteristico e deciso, che vollero a tutti costi non privarmi dell’esperienza e misero in valigia una bella bottiglia piena del prodotto cammelligeno.

Il piano era che, essendoli, io stesso andati a prenderli all’aeroporto, avrei dovuto, seduta stante, appena sbarcato, gustare il prezioso liquido dalle molteplici proprietà benefiche, anche se allora non aveva ancora preso piede il consumo di latte crudo. Così assieme aspettavamo ansiosi la valigia maledetta che finalmente comparve sul nastro trasportatore, con grande giubilo dei miei “amici”. Tuttavia si notò subito che intorno al bagaglio una vasta chiazza biancastra stava allargandosi velocemente. La valigia fu presa al volo mentre schizzi di colaticcio puzzolente ammorbavano i vicini che invano tentavano di scostarsi.

Purtroppo la bottiglia dotata di un tappo di scadente qualità aveva disperso tutto il suo contenuto, contaminando irrimediabilmente i vestiti ed in particolare un bellissimo colbacco di visone appena acquistato che dovette essere buttato assieme a tutto il resto. Il confezionatore della bottiglia, che non era il proprietario del colbacco, non fu mai più perdonato. Per quella volta, con grande rammarico, dovetti rinunciare all’esperienza.