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domenica 27 settembre 2009

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venerdì 25 settembre 2009
Per chi suona la campana.

E' mattina presto in un parco di una città cinese qualunque. L'aria pungente dell'inizio primavera ti lascia respirare bene e tra le piante non arrivano neanche gli odori poco gradevoli di una umanità troppo numerosa per non darsi reciprocamente fastidio. Su un prato un gruppetto di anziani praticano il Tai Ji con movimenti lenti e continui che aiutano a fare spazio tra i pensieri, a rallentare le connessioni tra neuroni, a far fluire con regolarità vagotonica i tuoi bioritmi. Anche i suoni sono lontani, quasi impercettibili, ovattati dallo spazio e dalle distanze. In fondo al giardino, d'un tratto, una percussione netta fa esplodere nell'aria un suono forte e deciso che si spande nell'aria in onde sovrapposte come una pietra gettata sulla superficie piatta di uno stagno. E' una sonorità grave quella della grande campana cilindrica che sta sotto un porticato di colonne rosso laccato a cui un monaco ha spinto, con un movimento ritmato e deciso, il grande batacchio contro la parete ricoperta di minuscoli caratteri in grafia antica. Dura a lungo il suono di una grande campana, pervade l'aria come un liquido denso, scemando a poco a poco come vino che cola gli archetti di glicerina lungo le pareti di un bicchiere di puro cristallo. Lentamente, con spazi precisi e preordinati. Tutte le campane che ricordo danno queste sensazioni. I colpi frequenti ed acuti da un basso campanile bianco della chiesetta di Chamula nel Chapas, il tintinnio delle campanelle dorate dei templi buddisti di Chang Mai, la campana rituale battuta col pestello di legno dei monaci tibetani al monastero di Sera, le grandi campane giapponesi fatte risuonare dal movimento di un tronco basculante, il concerto lontano dalle torri di Notre Dame ed anche l'Ave Maria che alle otto di tutte le mattine, il campanile del mio paesetto di montagna, proprio sopra la mia testa, spara in maniera assordante e ripetuta, eppure non fastidiosa. O ancora le piccole campane che fanno da sottofondo continuo al verde ricco di sentore di spezia di Bali, i tocchi pesanti nella semioscurità della cattedrale di Colonia, il desiderio di farsi sentire dei suoni che scendono dalle cupole a cipolla del grande monastero di Kiev sulla riva del Dnieper ghiacciato, lo scampanio di quelle appese al collo degli animali al pascolo in una valle alpina o quelli un po' più sordi e rapidi dei piccoli campanacci delle capre dei monti del centro di Creta. Diversamente da quasi tutti gli altri mezzi inventati dall'uomo per produrre suoni, questo dà sempre una sensazine di misterico, di trascendente, della ricerca umana di appoggiare la propria debolezza a qualcosa di più forte e tranquillo. Chi ha inventato la campana? Certo qualcuno che cercava la pace interiore. Avrete capito che stamattina non sapevo di cosa scrivere, ma mentre scorrevo le foto che ho in archivio alla ricerca di idee, la vista di questa campana lontana si è subito accoppiata magicamente al vuoto mentale, entrando automaticamente in risonanza. Secondo voi ci vogliono più campane in giro?
lunedì 14 settembre 2009
Fēi.

Volare è il sogno dell'uomo, in tutti i tempi ed in tutte le culture. Per alcune più che in altre è assieme sogno e poesia. Seguendo le indicazioni dell'amico Ferox, quindi volevo portare la vostra attenzione su uno degli ideogrammi più poetici della lingua cinese. Nell'antichità per trascrivere l'idea del volo si tracciava un complesso carattere che voleva raffigurare delle cicogne in volo col collo slanciato mentre attraversano il cielo al tramonto, in stile un po' Lufthansa tanto per capirci. Nel tempo l'ideogramma si è andato semplificando come si vede nella versione tradizionale a sinistra dove si lascia spazio alle ali distese, mentre nella versione moderna "semplificata" la grafia veloce ha letteralmente spennato le maestose ali della cicogna riducendole a due misere alucce e alla lunga gamba visibile del trampoliere in oggetto. Così unito a jī (macchina) abbiamo abbiamo 飞机 (macchina che vola) quindi "aereo", perchè oggi bisogna produrre di più e più velocemente e lo spazio per la poesia deve essere necessariamente ridotto, ma ecco che il germe non si spegne e si fa strada comunque, perchè la bellezza anche se calpestata dall'economia non muore mai e se uniamo il nostro fēi al carattere di "bianco" abbiamo il significato di parola scritta, in quanto se i caratteri sono vergati con la giusta attenzione e lentezza della bella calligrafia, rimangono molti spazi bianchi , come se il pennello volasse.... Ma insiste Ferox che i cinesi non solo solo dei poeti sognatori, ma sanno credere anche alle cose reali e vogliono capire a fondo anche quelle cose che da noi si sottovalutano o vengono prese come scherzi estivi. Ecco allora che mi porta l'attenzione su : bu ming fei xing wu. Le prime due sillabe le abbiamo già viste e quindi ve le ricordo soltanto (不明) "non chiaro" , mentre le due che stanno accanto a fēi (volare) significano oggetto. Dunque? Oggetto volante non identificato, UFO, detto anche fei die (飞碟) "piattino che vola". Ehehehehe, loro pare che ci credano, anzi li studiano con attenzione, ci sono addirittura delle riviste che ne parlano dettagliatamente, poi basta dare un'occhiata su iutiub e se ne trovano a iosa (es. qui , qui , qui ). Ferox dice che è per questo che ci stanno fregando, magari gli omini verdi erano gialli in effetti.
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sabato 12 settembre 2009
Una lettura dei tarocchi.

C’era un posto straordinario a Pekino, lo Xue Shue Market, una minuscola traversa della Chang An, la grande arteria che attraversa da est ad ovest tutta la città passando davanti alla piazza Tien An Men, vicino alle ambasciate. Quando ci passavi davanti quasi non la vedevi, con lo stretto ingresso quasi otturato da tre o quattro grossi negozi. Al di la del varco, un vicolo lungo qualche centinaio di metri che si biforcava a metà, lungo il quale, uno vicino all’altro si affastellavano in una sequenza infinita una serie di bugigattoli larghi non più di due metri, con le entrate quasi otturate da cascate di merce taroccata di ogni genere e tipo. Una scia di folla continua, a due per due, ché la dimensione del vicolo non permetteva di più, sfilava davanti ai negozietti lentamente, osservando, valutando, scegliendo, contrattando con il tizio o la tizia che emergeva, quasi sepolto dalla sua stessa merce in vendita. Tutte le più importanti marche del mondo erano esposte con ordine e pignoleria, dall’abbigliamento, alle calzature, agli occhiali, alle borse, agli accessori, ai foulard, agli orologi. Qualunque cosa che nel mondo fosse valorizzata da un qualsiasi tipo di griffe, vi era rappresentata in ogni modello più noto e conosciuto. Era il regno della contrattazione accanita. Venivi prima invitato a verificare la qualità del prodotto, poi partiva la richiesta esosa (sempre ridicola in termini assoluti, tipo 68 euro per una giacca a vento North Face) che terminava invariabilmente per 8 o 80, che porta fortuna e cominciava il balletto dei ribassi, delle disperazioni del venditore che doveva sfamare la famiglia, le finte fughe del compratore che veniva invariabilmente richiamato con un ulteriore ultimo sconto; poi a poco a poco offerta e richiesta si avvicinavano fino ad incontrarsi, meglio se avevi una qualche dimestichezza con un po’ di cinese, i numeri almeno e le parole fondamentali come tai quei la (troppo caro) e te ne andavi col sacchetto nero pieno del tuo bel tarocco a dieci dollari. In realtà c’erano diverse fasce qualitative nel taroccamento, da quelli di alta fascia, in pratica gli originali che uscivano dalle fabbriche che facevano le stesse cose, incaricate dalle griffe autentiche che inviavano i materiali veri per risparmiare sul costo del lavoro e che quindi si autopunivano con le loro stesse mani, a copie via via più scadenti a volte addirittura commoventi, come quella maglietta che portava scritta davanti la dicitura LENTINO GARAVA. Mi confessò il venditore che la sua fabbrichetta copiava dalle foto delle riviste e in quel caso non avevano capito che il capo vero era siglato Valentino Garavani, ma nella foto i due estremi non si vedevano e loro non sapevano neanche chi fosse. Altri offrivano tutta la serie di orologi da tre a trenta euro per i Rolex meccanici, i più belli, disapprovatissimi dal mio amico Ping che sfoggiava invece un Rado da 2000 dollari; le cinture venivano via ad due euro, mentre all’ingresso del vicolo, un gruppo di donne vendeva le T-shirt Lacoste a un euro l’una cercando di bloccare i clienti prima che entrassero nel budello. Più avanti, in una casetta a due piani, dei veri e propri negozi che offrivano merce più sofisticata, alcuni venditori cercavano di dare un loro proprio design per vestiti offerti con il loro marchio cinese, roba piuttosto creativa secondo me, che di massima, gli occidentali obnubilati dal tarocco snobbavano senza pietà. Questo luogo è sempre stato una spina nel fianco per le griffes mondiali che hanno cercato di farlo chiudere in ogni modo, non comprendendo scioccamente che ti si copia solo se vali qualcosa, che la copia è un tuo messaggio pubblicitario gratuito, che chi compra il tarocco non compra l’originale, quindi le vantate perdite sono in realtà inesistenti, anzi chi compra oggi un Rolex a 30 dollari, quando se lo potrà permettere sarà il primo acquirente di quello da 3000. Se io avessi una griffe sarei molto preoccupato se nessuno me la taroccasse. Poi qualcosa è accaduto, il progresso avanza, la stradina è stata cancellata, al suo posto un palazzone di sei piani, il Silk Palace, enorme, in cui trovavano posto gli stessi negozietti a costi un po’ superiori a cui le griffes mondiali coalizzate finalmente hanno fatto causa, vincendola. Adesso, mi dicono che tutte le merci esposte, le stesse di prima, hanno etichette cinesi; per avere il tarocco, devi faticare parecchio, poi qualcuno lo tira fuori con aria complice da sotto il banco, naturalmente a prezzo raddoppiato e la magia se ne è andata a farsi friggere. Poco per volta anche il regno di mezzo verrà omologato.
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