Nel GuangDong l'autunno non porta colori forti e contrastati. La calura estiva si stempera a poco a poco nell'umidità arrogante ed intrusiva che incolla la camicia alla pelle. Anche le serate, se pure meno afose, invitano alla ricerca artificiosa di un'aria condizionata non troppo siberiana. Quella sera di ottobre, vicino a Guang Zhou, due importanti clienti mi avevano invitato a cena in un lussuoso ristorante del porto fluviale. Il mio amico che mi accompagnava, ci fece strada nella immensa hall luccicante al cui centro troneggiavano decine di acquari in cui nuotavano pigramente ogni sorta di pesci. Grassi branzini, orate colossali e molti altri a me poco conosciuti, assieme a molluschi di dimensioni inquietanti, abaloni dalla conchiglia iridescente, cetrioli di mare, vongole giganti, granchi rossi dalle chele mostruose. Al centro troneggiava un acquario con aragoste di dimensioni mai viste, cagnolini antennuti che muovevano pigramente le appendici. Pensai che si stava mettendo bene, ghiotto come sono di seafood e con il contratto già firmato in tasca. Ci accomodarono in un salottino riservato e dopo la consueta lunghissima consultazione per la scelta del menù, fanciulle in costume arrivarono con vassoi di antipasti. Dopo i consueti convenevoli e brindisi con vino di riso, cominciammo a girare la ruota centrale caratteristica dei ristoranti cinesi, per pescare dai piatti comuni. Gli appetizer non erano poi così allettanti, arachidi al curry, zampe di anatra bollite, ginocchia di pollo maniacalmente allineate, pelle secca di maiale in aceto, fettine di uova dei 100 anni dal tuorlo nero-blu, traslucide meduse in salamoia, insalata di alghe et similia. Piluccai qualcosa in attesa del piatto forte che tardava ad arrivare, tra sorrisi di circostanza. Finalmente due inservienti spalancarono la porta e una giovine con un bellissimo vestito rosso tradizionale fece il suo ingresso trionfale con un gran piatto che sistemò al centro della ruota del tavolo tra le manifestazioni di ammirazione dei miei anfitrioni. Fui colto di sorpresa, ma riuscii ugualmente a manifestare un senso di grata e consapevole approvazione. Al centro del maestoso piatto di portata, occhieggiavano in sostituzione delle sperate aragoste molte decine di grassi, tondi, neri e ben torniti scarafaggi fritti (Dytiscus latissimus). Concordo col fatto che fritta è buona anche una ciabatta, ma tentai di esimermi più volte, facendo girare la ruota per allontanare da me l'amaro calice, ma nessuno si serviva ed il piattone dopo aver girato si fermava invariabilmente davanti a me, mentre tutti mi guardavano sorridendo in attesa che l'ospite d'onore si servisse per primo. Cercai di dire che non avevo fame, che ero già satollo per le troppe zampe di anatra mangiate e che la pelle delle ginocchia di pollo mi riempiva molto, ma l'amico mi fece chiaramente capire che tutti si aspettavano le mie mosse e che non si poteva essere scortesi e fare figuracce. Così mentre sei fessure sottili seguivano con attenzione i miei movimenti, traslocai, usando con perizia le bacchette, una dozzina di animali nel mio piatto e, sotto osservazione continua, cominciai il fiero pasto forbendolo intanto delle zampine che, essendo fritte cadevano facilmente senza dare fastidio. Seguendo le istruzione aprii le elitre con cura e succhiai in modo avido, tra l'approvazione generale il contenuto giallognolo e sodo. A questo punto l'operazione era sdoganata e tutti si diedero un gran da fare per sbarazzare il piatto. Come per i gamberetti si lavora molto per mangiare poco, ma alfin giungemmo al termine e potemmo finalmente suggellare la serata con un bicchierino di grappa di riso in cui con grandi cerimonie venne sciolta una bile di serpente che diede al liquido un bel colore verde smeraldo. Un amaro deciso per digerire la cena. Salutammo i nostri ospiti cordialmente e ce ne tornammo in albergo dove tentai di riposare. Fu una notte inquieta, ma il mio amico Ping mi disse che per la mia salute quella cena sarebbe stata una mano santa.
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lunedì 23 febbraio 2009
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