Il Tai Ji Quan viene definito anche come la meditazione in movimento. Quando si passava vicino ad un giardino pubblico in ogni città della Cina al mattino presto, si vedevano gruppi di persone, anziani con la giacchetta blu di Mao, ma anche giovani manager incravattati (ad Hong Kong) che, posata a terra la 24 ore si muovevano sincronicamente eseguendo le sequenze delle forme Yang. Per curare il corpo, la tonicità della muscolatura, la scioltezza delle articolazioni, la coordinazione del movimento, ma soprattutto l'armonia e l'equilibrio fisico e mentale. Una continua ricerca di sè che allontana la malattia, consueta nella ipocondriaca filosofia orientale. Così una sera, dopo una ossessiva giornata di lavoro in una stagnante umidità appiccicosa, seguii un mio amico che perfezionava il suo Tai Ji da un famoso maestro di Mong Kok. E' questo uno dei luoghi simbolo della fine dell'umanità per sovrappopolazione. Un quadrato di circa un kilometro dove vivono oltre un milione di persone. Un dormitorio di case di 25 piani con microalloggi, affastellate ordinatamente, in cui le persone si ammassano, cucinano, mangiano, dormono a rotazione, in un caldo da girone dantesco, su un pubblico palcoscenico di uno spettacolo giornaliero a cui nessuno fa caso. Un inferno orwelliano a cui l'uomo si abitua evidentemente. La palestra non era l'ombroso cortile di un tempio taoista, come nei film di Kung fu, ma la piatta cima di uno dei palazzi, da cui a stento si vedevano le luci della baia resa nera dalla notte senza stelle. Dai meandri venivano suoni di televisori al massimo del volume, voci di litigi, odori pesanti di pesce fritto nel wok, calore sudato di umanità stanca. Confluivano in lente volute sul tetto aperto e limitato da un basso parapetto su cui una decina di allievi perfezionavano i loro movimenti. Mi sedetti in un angolo cercando di non guardare sotto, osservando gli studenti maneggiare con perizia, la pesante sciabola o il lungo bastone. Uno provava e riprovava le posizioni di equilibrio della spada, mentre altri due con il mio amico eseguivano una sequenza a mani nude. C'era un'atmosfera di concentrazione nell'aria, ignara dell'umanità sottostante ed incurante della cappa umida e stagnante della notte. Il maestro, che aveva dato alcune distratte indicazioni all'inizio della lezione, era accosciato su un seggiolino sgangherato vicino al parapetto, appoggiato ad una tavola che sporgeva nel vuoto e scorreva con intensità le colonne di un giornale di scommesse dei cavalli, lanciando di tanto in tanto qualche occhiata distratta. Non mi stava facendo una grande impressione. Poi, posato il giornale con un grande sbadiglio, si alzò aggiustando il laccio dei pantaloncini e infilandovi il bordo della canottiera sudata. Era piccolino e grassoccio, quasi calvo, con la pancetta tipica del bevitore di birra. Nel momento in cui si alzava avvenne la trasformazione. Il suo passo era morbido, armonico, incongruo con la sua conformazione fisica. Passò da uno all'altro degli allievi, correggendo le posizioni, dimostrando i movimenti, eseguendo parti di sequenze con un equilibrio di postura ed una scioltezza del gesto che mi assorbirono completamente. Si sentiva il Qi fluire in lui con forza, ma ogni movimento appariva facile, leggero, fluido ed eseguito senza fatica, naturalmente come deve essere il Tai Ji. Una sensazione di armonia che annullava completamente l'ambiente circostante. La lezione finì e nel cigolante ascensore scendemmo lenti i 25 piani per andare al ferry che ci avrebbe riportati a Weng Chai. Il Tai Ji era ormai dentro di me. Il mattino dopo, alle 6:00, ero già nel Victoria Park a fare i primi movimenti.
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