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sabato 2 gennaio 2010

Hóng lóu mèng.


Ieri ho finito Hóng lóu mèng, Il sogno della camera rossa, uno dei più famosi classici cinesi della fine del settecento. Il romanzo di Zhao Xue Chin, ambientato nel periodo d’oro della dinastia Chi, rappresenta una bella sfida per il lettore occidentale, anzi diciamo pure che ci vuole un bel fegato ad affrontare fino alla fine le oltre mille pagine di questo affresco di vita di corte cinese, senza crollare, massacrati da un modo di raccontare tuttaffatto diverso da quello a cui siamo abituati. Un continuo affastellarsi di avvenimenti, un raccontare dettagli che ci possono apparire secondari o non determinanti nello svolgersi della storia. Eppure se si riesce a resistere, seguendo la vita del giovane Pao-yu, il rampollo di una importante famiglia di nobili, destinato al classico cursus honorum per diventare funzionario alla corte dell’imperatore, che si dipana lentamente negli splendidi giardini di certo molto simili a quelli che si possono vedere ancora oggi in Cina, apparirà uno stupendo affresco di vita, che permette di afferrare completamente moltissimi aspetti della mentalità, del costume, del modo di esprimersi, di tutte le infinite sfumature di comportamento di un mondo di cui spesso si conosce assai poco e ancor peggio si interpreta sulla base di notizie approssimative. La vicenda si può interpretare come quella di un giovane Holden d’Oriente, ribelle al destino che lo attende, al modo di comportamento che da lui ci si aspetta, secondo una serie di topoi, tutto sommato comuni a tutte le culture. L’adolescente cresce in mezzo ad un gran numero di sorelle e cugine, vivendo praticamente un mondo femminile, appunto “la camera rossa” e rifiutando di applicarsi allo studio seriamente come da lui si vuole, innamorandosi, ricambiato, della ragazza non destinata a lui, la bellissima cugina Tai-yu e obbligato a sposare quella che non lo interessa. Dopo l’amore impossibile, la morte di consunzione dell’innamorata, il rifiuto dell’autorità e degli obblighi a cui era destinato, Pao-yu si farà monaco e la casata, scossa da scandali e minata dalla corruzione cadrà definitivamente in rovina. Sembra una classica trama di un nostro romanzone ottocentesco, poniamo, tanto per dire, I Vicerè, ma è il ritmo particolare, la descrizione minuziosa degli ambienti, i dialoghi che illuminano meravigliosamente le sfumature del linguaggio, la pruderie che ancora oggi impediscono anche la pronuncia di semplici allusioni, come il gioco delle nuvole e della pioggia, pena una imperdonabile volgarità o il barocchismo esasperato delle formule di cortesia e degli atteggiamenti, che riescono ad affascinare il lettore nostrano. Atteggiamenti descritti, modi di fare, mentalità di quasi tre secoli fa eppure molto presenti oggi in un paese che si sta candidando alla leadership mondiale e verso la quale molti hanno ancora un atteggiamento di tragica supponenza. Io ho avuto tra le mani una deliziosa edizione UTET del ’64, che mi ha regalato un caro amico e se decidete di dargli un’occhiata, cercate di resistere fino alla fine, secondo me, si capisce di più della Cina da questo libro che non da molta documentaristica spicciola che circola. Mal che vada farete sempre una gran figura da intellettuali, citando l’opera.

2 commenti:

  1. mi hai messo davvero curiosità! Sai se ci sono edizioni più recenti in commercio?

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  2. Non saprei, quella che ho io l'ha trovata un amico su una bancarella.

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