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sabato 29 gennaio 2011

Qiè, fēi.


Fare la concubina è stato sempre un mestieraccio da tutte le parti, figuriamoci in Cina, dove quel rompiscatole di Confucio voleva che tutto fosse rigidamente regolamentato e soprattutto controllato, per le tasse, mica per altro). D'accordo l'imperatore doveva rappresentare anche quello che per ogni persona doveva essere il sogno del massimo raggiungibile, quindi l'harem era il minimo a cui avesse diritto, ma non pensiamo che fossero tutte rose e fiori. Regolamento è regolamento e la morale è la morale. Che puntigliosamente predisponeva che avesse una regina, tre consorti principali, 9 di secondo rango, 27 di terzo e 81 concubine ufficiali. Inoltre i ranghi inferiori dovevano unirsi al re più frequentemente dei superiori e la regina aveva diritto ad un rapporto al mese. E non è che uno poi faceva come gli pareva, troppo comodo. Attenzione c'erano 30 dame di corte incaricate di accompagnare le aventi diritto nel letto nuziale, dove rimanevano per assistere alla consumazione prendendo diligentemente nota con inchiostro rosso (da cui "scrittura rossa" per letteratura erotica) dello svolgimento dei fatti e dei relativi risultati, trascrivendoli poi negli atti ufficiali del regno dove tutt'oggi sono visibili.


Non ci sono le foto solo perchè non avevano telefonini, ma altro che trascrizione di intercettazioni, qui siamo di fronte ad informazioni testimoniali dirette ed inoppugnabili, uno sputtanamento mediatico senza se e senza ma, soprattutto se si considerano le cilecche. Naturalmente le concubine, essendo quindi ammesse con maggiore frequenza nel talamo imperiale, si davano un sacco da fare per ottenere prebende su cui il re largheggiava, perle, anelli e gioiellame vario, oppure per avere incarichi di importanza, ma qui non c'erano santi, la Cina è sempre stata meritocratica e non c'era verso che una concubina potesse avere un posto nella amministrazione imperiale. Nel letto va bene, ma finiva lì. E' molto interessante allora, esaminare i caratteri dal significato di concubina. Due erano principalmente usati. Come vedete in entrambi ovviamente era presente il ben noto segno che significa donna (sotto in qiè e a sinistra in fēi), l'altro segno invece descrive come sempre un aspetto particolare delle concubine di quei tempi. Nel primo caso il segno superiore significa "stare diritto" (la stilizzazione di una persona ben in piedi sulla linea del terreno) per dimostrare l'orgoglio con cui queste signore valutavano la loro importanza nella considerazione e nelle decisioni dell'imperatore, su cui esercitavano comunque un potere che potremmo definire ricattatorio, mentre nel secondo carattere la donna è abbinata al segno di "fili della trama" in quanto questo tipo di donna, nell'attesa di accedere al talamo, non fa altro che tessere trame e non si allude al telaio in questo caso. In ogni caso donne travagliate e tristi che non avevano diritto, come le mogli principali, di rimanere tutta la notte accanto all'imperatore, ma che, per così dire a missione compiuta, venivano accompagnate alle loro residenze dai membri della scorta, condannate a nutrire un sordo risentimento per questa ingiustizia. A tal proposito vi lascio con una poesia del già citato libro delle Odi, Le Stelline (altra parola usata per indicare le concubine).




Siamo solo tremolanti stelline.

Timide, camminiamo nel buio

mentre la notte regna nel palazzo.

Povere donne dal destino ineguale.


lunedì 24 gennaio 2011

Il Milione 36: Templi e spezie.

Gelo e brina ci avvolgono. Voglia assoluta di sud, anche quando questo possa voler dire calore insopportabile. Eccoci quindi rientrati nella carovana di Marco Polo, ormai plenipotenziario del Khan che viaggia nell'impero descrivendone gli angoli più lontani. Ha lasciato il Tibet e si muove ormai sempre più a sud seguendo i grandi fiumi che vogliono invadere la misteriosa jungla indocinese.

Cap. 120-123

E quando l'uomo si parte da questa provincia discende per una grande china per bene due giornate e mezzo. Poscia va per 15 giornate per un luogo disabitato e sozzo ov'à molte selve e boschi con leofanti e unicorni e altre diverse bestie assai...

Certo il nostro Marco sarà rimasto impressionato dalle jungle impenetrabili che allora ricoprivano completamente i territori indocinesi, una terra selvatica, pericolosa, tra tigri, elefanti e rinoceronti, dove forse era difficile e pericoloso muoversi ma che dovevano rappresentare per un veneziano curioso del mondo una attrazione irresistibile. Teniamo conto che il suo passaggio da questa parti corrispondeva ad uno dei periodi di massimo splendore della cultura Khmer, tuttavia probabilmente alla vista assai più rozza, forse, delle raffinatissima corte del Gran Khan. Si sarà mosso attonito e stupito attorno agli stupa di Angkor wat o sarà rimasto senza fiato dinnanzi ai grandi visi di pietra del Bayon, come me che per cinque giorni mi sono aggirato tra queste straordinarie rovine, dove la jungla impietosa, come allora combatte una battaglia quotidiana con l'opera dell'uomo cercando di avvolgere e assimilarne la presenza per annullarla completamente, per annichilirla infine nel suo abbraccio mortale.

Cap. 120-123

Caugigiu (forse la Cambogia) è una provincia del levante tra Aniu (Vietnam), Mien (Birmania ) e Bangala. Sono idoli e ànno lingua loro. E quivo ànno torri di pietre ch'elle sono alte e bene dieci passi e grosse come si conviene a quell'altezza. E quivi si trova molto oro e care spezie.

Niente da fare, il mercante alla fine prevale sull'attonito viaggiatore e lo riporta sulla terra, però possiamo immaginarcelo a fantasticare sui molti affari che si potevano imbastire da quelle parti. Sicuramente ci sarà già stato un gran movimento, che allora era composto prevalentemente di pellegrini, ma lì c'era già una grande città piena di posti di ristoro, come quelli che adesso nutrono i turisti che arrivano a frotte, gustandosi magari una cua nâu bôt bâng, la zuppa cambogiana di tapioca e granchio (per la ricetta vi rimando come al solito da Acquaviva). Io masticavo le mordide palline di farina di manioca pensando alla forza che, dopo 800 anni, emerge da quei visi di pietra che ti sorridono immobili e sereni, lui forse almanaccando le differenze di prezzo del pepe nero, franco porto di Venezia, naturalmente.



venerdì 21 gennaio 2011

Un imperatore cinese.


Oggi ho la vena storica, d'altra parte, come si dice Historia magistra vitae, dunque un'occhiata al passato serve sempre ad illuminare le menti ed è utile ad allontanare il chiacchiericcio dai soliti argomenti che a lungo andare vengono a noia. Torniamo quindi in Cina, una Cina molto lontana nei tempi, dei cui sovrani rimangono solo racconti e leggende che probabilmente sono lontani dalla verità storica, ma si sa che le cose col passare dei secoli vengono sempre ingrandite, nel bene e nel male fino a descrivere fatti talmente esagerati da sembrare incredibili. Eccoci quindi al regno dell'Imperatore She Hsin, un personaggio quasi mitico, ricordato soprattutto per la sua ricchezza e munificenza ed alla descrizione delle sue favolose feste. In particolare si ricordano quelle dette del Grande Inverno, in cui si cantava la Morte del sole e che corrispondeva più o meno con il solstizio d'inverno. Come sapete i tempi in Cina, civiltà essenzialmente contadina, sono sempre state scandite dai tempi del cielo.


Dunque in questa occasione, l'imperatore, ogni anno organizzava in uno dei suoi sontuosi palazzi, feste rimaste famose per l'esagerata esposizione di ricchezza. Queste cerimonie si svolgevano alla fioca luce delle fiaccole e gli eccessi di cui si favoleggiava, preoccupavano i saggi e gli anziani del regno che non vedevano di buon occhio questi atteggiamenti del sovrano, convinti che tutto andasse a detrimento del buon governo del regno, che tra l'altro in quel periodo attraversava una fase di gravi carestie. Ma queste feste erano ormai una scadenza inderogabile e diventavano sempre più sontuose. Vi erano invitati tutti i più fedeli servitori dell'imperatore, che brigavano in tutti i modi per potervi prendere parte e si dice che venissero innalzate montagne di cibo in cui si scavavano stagni ricolmi di vino e di ogni altre rare e preziose prelibatezze.

Tutti i partecipanti dovevano bere a sazietà mentre le concubine dovevano lappare il vino dallo stagno come bestie all'abbevaratoio, tra i lazzi del partecipanti, per poi lanciarsi in danze sfrenate e nella rappresentazione di scene di antiche commedie licenziose. Poi si scatenava l'orgia, in cui l'imperatore arrivava, a detta dei suoi detrattori, a superare ogni limite umano e bestiale. La festa culminava col sacrificio dell'Imperatrice le cui carni arrostite venivano divorate dagli invitati come segno della munificenza del sovrano. L'imperatore si diceva immortale, ma come tutti i Reich millenari, il suo regno durò circa una ventina di anni. Il sacrificio di una moglie all'anno, infine non rappresentava una grossa perdita, si dice infatti che avesse 932 concubine che, pare, soddisfacesse con regolarità. Ma queste sono cose così fantasiose che pare difficile avessero un reale riscontro e si sa che questa storia esagerata e manifestamente incredibile, la scrissero i nemici del re per perseguitarne la memoria.

sabato 15 gennaio 2011

Il Milione 35: Escort e corallo.



Strade deserte e difficili, passi solitari, sentieri erti o stradine terrose che ruotano attorno ai templi, il Tibet ti appare sempre e comunque selvatico e misterioso. Negli sguardi di chi incontri, negli animali, essi stessi selvatici, nei poveri indumenti della gente, come ricorda il nostro Marco "che il loro vestire è di canavacci e di pelle di bestie", ritrovi l'isolamento montanaro e la solitudine delle tribù dei deserti assieme ai loro usi particolari. Sono questi che alla fine incuriosiscono il viaggiatore, che se li fa raccontare, spesso con prurigine malcelata attorno al fuoco degli accampamenti tra risolini e sogghigni, masticando la tsampa o una delle povere minestre d'orzo (vedi la ricetta da Acquaviva), nelle poche varianti che può dare, a queste quote, la ridotta disponibilità di ingredienti. L'aria è sempre fine, il cielo di un indaco scuro con fiocchi di nubi bianchissime che paiono riccioli di burro in cerca delle guglie del tempio a cui legarsi. Le ragazze ti passano accanto ostentando copricapi ricoperti di pietre e lanciando occhiate furtive al viaggiatore incuriosito forse oggi come allora. Racconta Marco Polo:

Cap. 114/115

In questo luogo àvvi l'oro in paglieola in grande quantità, e quivi si espande l'azzurro (i turchesi) e lo coraglio e èvi molto caro, ch'egli lo pongono al collo di loro femmine e ànnolo per grande gioia.

E come non si può rimanere colpiti da questa ostentazione di rosso e azzurro, in pietre grezze, ma elegantemente raccolte e formare collane, pendenti e ornamenti di tutti i tipi che le ragazze mostrano con orgoglio, forse a riprova delle antiche usanze che tanto affascinavano il nostro giovane viaggiatore, sentiamo come continua il libro:

...Questo Tebet è una grandissima provincia. Quivi àe uno cotale costume di maritare che vi dirò. Egli è vero che niuno uomo piglierebbe neuna pulzella per moglie e dicon che non vale nulla, se non è costumata co molti uomini. E quando li mercatanti passano per queste contrade (questo sempre come guida di utili consigli), le vecchie tengon le loro figliuole sulle strade e per gli alberghi e per loro tende e fannole giacere con questi mercatanti e poscia le maritano. E quando il mercatante à fatto il suo volere, conviene che le doni qualche gioia (noblesse oblige) acciò che la pulcella mostri come altri àe avuto a fare seco; e quella ch'à più gioie e più belle, è segno che più uomini sono giaciuti con essa e più tosto si marita. E anzi che si possa maritare conviene ch'abbia almeno 20 segnali al collo per mostrare che molti uomini abbia avuti e quella che n'àe di più è tenuta migiore e più graziosa che le altre.

Così quando passeggi a Lasha attorno al Jokang o quando respiri a fatica lungo l'erta sassosa che ti conduce a un monastero, siedi su una pietra a riposare e porta con te gli sguardi languidi che le ragazze lanciano al passare. Il taglio esotico dei loro occhi brilla come il giaietto. Le pietre rosse e azzurre spiccano orgogliose tra i capelli neri, corone di colore che scendono ad ornare il collo delicato in volute complesse. Passano girando appena il capo, lasciando dietro di sé, forse, l'ombra del sorriso malizioso delle loro nonne.

giovedì 13 gennaio 2011

Péng yǒu.


Siamo ancora in Cina per esaminare una parola moderna, esempio della evoluzione della lingua. Nato come monosillabico, il cinese mandarino, va aggiungendo al vocabolario sempre un maggior numero di vocaboli formati da due o più sillabe. Questo per arricchire meglio i concetti e per superare il problema della confusione creata dai troppi bisensi, provocati dal basso numero di sillabe utilizzate. Tutto questo aumenta la ricchezza di sfumature della lingua unendo concetti diversi nello stesso pensiero. Un esempio di questo è la parola che vediamo oggi e che significa semplicemente "amico". Anche i due ideogrammi che anticamente si usavano separatamente avevano lo stesso significato ma illustrava aspetti diversi. Il primo, rappresentato da due deliziosi spicchi di luna, vede nell'amicizia il momento della confidenza, dell'aprirsi a raccontare le cose più intime, come possono fare gli amici davanti alla porta di casa, in una bella sera rischiarata dai raggi lunari. L'amicizia viene qui interpretata soprattutto come sentimento.


Nel secondo, invece dove si vede bene la stilizzazione più semplice della mano, rappresentata solo attraverso il pollice e l'indice, si privilegia l'aspetto dell'aiuto che puoi aspettarti di avere da un vero amico. Che deve essere presente nel momento del bisogno, appoggiandoti una mano sulla spalla per dirti, stai tranquillo, io sono qui e non ti lascio cadere, perchè se un tuo amico sta bene, se riesce a risollevarsi dopo una scivolata, anche tu stai meglio. Così nella parola sono evidenziati tutti i significati che deve avere l'amicizia. Però attenzione che gli affari sono affari e se la Cina si mette a comprare i bond europei dei PIIGS, non lo fa solo per il concetto di péng yǒu. Intanto il 7% è un buon affare, poi se sprofondiamo noi a chi andranno a vendere i loro prodotti? Conviene in qualche modo tenerci in piedi. In ogni caso così rafforzano notevolmente la loro posizione geopolitica e infine se la inettitudine dei nostri politici ci farà sprofondare definitivamente, basterà allargare il pollice e l'indice della manina con cui ci tengono sollevati per la collottola e lasciarci sprofondare nel baratro. Vuol dire che per un po' avranno lavorato gratis e le merci andranno a venderle in Africa.

martedì 11 gennaio 2011

Passare il ruscello.


Vi ho già detto che tutto gli argomenti di sesso in Cina sono accompagnati da una notevole dose di pruderie. Soprattutto nel linguaggio, che poi i fatti sono gli stessi da tutte le parti del mondo, vengono usate perifrasi complesse e poetiche per riferirsi a cose che a chiunque dovrebbero imporporar le guance al solo pensiero. Forse un tempo non era così. La società cinese infatti nasce matriarcale e si sa che quando comandano le donne queste si danno più libertà di movimento.

Contrariamente a quanto è accaduto da noi, dove le cose più antiche scritte sono andate in gran parte perdute, in Cina è rimasta molta documentazione, cosa che permette di investigare molti aspetti della vita comune. Era una civiltà contadina dove le donne avevano assoluta preminenza, prendevano le decisioni ed erano custodi, oltre che delle ricchezze del villaggio, delle preziosissime sementi che conservavano durante l'inverno ed i figli erano proprietà esclusiva delle madri. Il Libro delle odi è il più antico di cui abbiamo traccia e risale al 1600 a.C. e vi possiamo leggere la prima poesia d'amore cinese che vi propongo come esempio.


Se m'ami ancor, mio bello,
alzo la gonna e traverso il ruscello,
ma se non pensi a me,
altri ci son meglio di te!

Se tu m'ami ancor, mio bello,
alzo la gonna e corro da te,
ma se tu non sei più quello
ne trovo un altro meglio di te!

La giovane contadina invita un giovane a farsi avanti, a non esser timido, potremmo dire. Allora pare non fosse ben chiaro il meccanismo della procreazione, tanto che sembra si credesse che le fanciulle che traversavano il fiume alzando la gonna rimboccata fino alla vita (avrete notato la mia levità orientale nell'uso di questa circonlocuzione per non dire "senza mutande") rimanessero incinte. Gli uomini erano considerati (ufficialmente) esseri inutili (alla riproduzione ci pensava il fiume, al più erano utili solo di tanto in tanto, diciamo per il divertimento), necessari al più per il lavoro nei campi d'estate e che la notte si avvicinavano furtivi alle stuoie femminili sempre col timore di essere cacciati via in malo modo.

Stava però finendo l'epoca del matriarcato per dare luogo ad una forma più paritaria in cui uomini e donne erano come due corporazioni separate, i maschi a lavorare nei campi in estate, le femmine a tessere in inverno, in corretto equilibrio naturale, come sempre ricercato laggiù. Così d'inverno comandavano le donne e d'estate gli uomini, primavera ed autunno invece erano le stagioni in cui gli eserciti nemici si incontravano e si mescolavano, erano le stagioni dell'amore. Così nelle grandi feste dei villaggi, contadini e tessitrici passavano il fiume senza troppi problemi, tanto la colpa era sempre dell'acqua del ruscello. Ma a poco a poco l'espressione "passare il ruscello" assunse una connotazione decisamente sessuale e volgare. Così, con astuzia, abbiamo preso il sopravvento e abbiamo cominciato a dettare leggi che regolamentassero la difesa del pudore.

domenica 9 gennaio 2011

Il Milone 34: Tibet misterioso.

Sono ormai molti giorni che abbiamo lasciato il nostro Marco Polo, inviato del Khan, in giro per la Cina. Sappiamo che non è uno che stava con le mani in mano. Ed eccolo qua, lo abbiamo perso di vista per un attimo e lui già se ne va ad esplorare nientemeno che le desolate ed immense lande tibetane.

Cap. 114/115

..Tebèt è una grandissima provincia e l’uomo va per queste contrade 20 giornate e non truova né alberghi né vivande, ma deve portarne per sé e sue bestie, tuttavia trovando fiere pessime e molto pericolose...e v’à molte castella tutti guasti... la gente è idola e malvagia, che non ànno per niuno peccato di far male e di rubare e sono molto grandi ladroni e si vestono poveramente di canavacci e pelli e di bucherain…

Ora il giudizio che dà il nostro Marco sui tibetani è abbastanza tranchant, però è assai curioso che corrisponda appieno alla considerazione che degli stessi hanno i cinesi odierni, per non parlare dei loro vicini a sud, nepalesi e indiani. Dobbiamo ragionare su questo marchio di infamia che accompagna da sempre tutte le popolazioni nomadi del mondo, che sono viste dagli stanziali, come troppo liberi e per questo pericolosi a prescindere, a parte il fatto che gli stessi tibetani considerano la regione più vasta del loro territorio, la provincia di Kham, popolata di banditi e ladroni. La realtà è dunque che da sempre tra la Cina e questa sua regione (già allora inclusa e facente parte dell'impero) c'era una prevenzione di tipo etnico, cordialmente ricambiata dai tibetani stessi. Ma di certo quello che più colpisce il nostro esploratore sono esattamente le stesse sensazioni che attraggono il visitatore dei nostri tempi. Anche io sono rimasto attonito di fronte agli spazi sconfinati e deserti, al senso di abbadono di fronte alle costruzioni isolate abbarbicate ai crinali delle montagne, alla presunta selvaticità dei rari personaggi incontrati lungo le piste e gli alti passi. Una regione estrema dove con facilità la trascendenza ha la meglio sulla ragione e dove l'indimostrabile prevale e si rafforza aiutato dalla rudezza della natura che lo circonda.

Cap 114/115

…e quivi àe molti romitaggi e badie e monisteri di
loro legge……e questi fanno grande affumata dinnanzi agli idoli, di buone spezie e con grandi canti chè ciascuno à propria festa come li nostri santi… …e credon in idoli assai e strani e terribili…e ànno li più savi incantatori e strologi che siano, ch’egli fanno tali cose per opera di diavoli che non si vuole contare in questo libro che troppo maraviglierebbero…

Certamente questo è l'aspetto che più colpisce e affascina il viaggiatore, i templi, le statue terrifiche a loro guardia. Le leggende che li circondano e che lo fanno rimanere a bocca spalancata di fronte ai fuochi dei bivacchi, sorbendosi un delicato thé al burro rancido (spiegazione logica della riuscita di digiuni monacali prolungati e che fa anche tanto bene alle labbra vista la quota se riuscite a buttarlo giù) di fronte a racconti di miracolose levitazioni o di trasmissione a distanza del pensiero. Come ho già detto ho assistito anch'io a quest'ultimo miracolo telepatico, come da allegata prova fotografica.